"Orsolina e Lucrezia: volti della storia tra Medioevo e Rinascimento"
"Orsolina e Lucrezia: volti della storia tra Medioevo e Rinascimento"
Lezione del Dott. Matteo Bebi
19 Febbraio 2025
Copertina del libro "Orsolina di Catagnone": Ritratto di giovane donna, di Domenico Ghirlandaio, 1490 circa, Museo Calouste Gulbenkian. Lisbona
Lucrezia Panciatichi, di Agnolo Bronzino, 1541 circa, Uffizi, Firenze
Proseguendo nel progetto annuale “Pianeta Donna,” la relazione dell’autore gualdese Matteo Bebi “Orsolina e Lucrezia: volti della storia tra Medioevo e Rinascimento” per i Soci dell’Università della Terza Età Città di Gubbio, Mercoledì 19 Febbraio 2025.
Nel suo romanzo storico “Orsolina di Catagnone. Storia di una donna del Quattrocento Umbro” l’autore gualdese ricostruisce, a oltre seicento anni dall’eccidio di Nocera Umbra, avvenuto nella notte del 21 gennaio 1421, le vicende di questo personaggio così significativo per la storia della città affermando: "Non è solamente il racconto della giovane protagonista, ricostruito tramite l'analisi delle fonti storiografiche, ma anche un grido contro la violenza sulle donne e le violenze tutte, che oggi più di ieri ci stringono in una morsa asfissiante."
L’incontro è proseguito con il commento di un altro libro “Sans fin amour – Il ritratto di Lucrezia Panciatichi” in cui l’autore Matteo Bebi racconta la storia di un’altra donna vittima anch’essa di violenza, non fisica come Orsolina, ma che la rese vittima di una costrizione psicologica, più sottile e continuativa, ma a tutti gli effetti, una violenza.
“Orsolina di Catagnone. Storia di una donna del Quattrocento Umbro” di Matteo Bebi è il racconto delle vicende convulse che portarono alla famosa Strage dei Trinci, di cui protagonista indiscussa è proprio Orsolina, sposa del castellano Pietro da Rasiglia.
Il romanzo propone una nuova prospettiva d'indagine, in parte anche psicologica, per restituire dignità alla memoria di questa donna e ai suoi sentimenti più intimi, indagando i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue speranze, fino all'estremo gesto che ne decretò la fine.
“I fatti storici sono ricostruiti attraverso l’analisi delle fonti – spiega l’autore – ma non sono il vero motore del racconto …. Il testo è scritto in una maniera inconsueta, appositamente, nel tentativo di catapultare il lettore nell’io della giovane protagonista, vittima di un mondo schematizzato, conchiuso entro un preciso binario. Una realtà tracciata che sarebbe andata peggiorando col tempo, fino a giungere ai nostri giorni, dove certo la violenza (sia essa fisica o verbale) non può dirsi affatto estinta. Anche coloro i quali nel testo sembrano essere ‘antagonisti’, in verità, sono a loro volta vittime inconsapevoli degli schemi nei quali sono imprigionati. A 600 anni di distanza Orsolina di Catagnone non è solo la storia angosciosa di questa nostra conterranea ma un grido contro ogni tipo di violenza."
Di Orsolina non sappiamo precisamente la data di nascita né abbiamo notizie sulla sua infanzia. Sappiamo che nasce a Fratta di Trevi, nella campagna tra Trevi e Montefalco alla fine del XIV secolo circa ed è figlia della piccola nobiltà della pianura umbra, in quel momento fortemente influenzata dalla presenza dei Trinci.
Amministra il territorio Corrado signore di Foligno, anche con l’aiuto dei fratelli Bartolomeo e Niccolò, quest’ultimo descritto come «severo con crudeltà, libertino con violenza.»
Orsolina viene promessa in sposa a Pieto, figlio di Pasquale di Vagnolo, impiegato dai Trinci come esecutore di "lavori sporchi."
Si racconta che Niccolò fece una proposta al marito della donna: la Rocca di Nocera - cioè la più bella, la più ricca e la maggiormente fortificata di tutti i castelli dei Trinci - in cambio delle grazie della sua sposa.
Ser Pietro di Pasquale da Rasiglia divenne quindi Castellano di Nocera.
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A un certo punto, però, ser Pietro scoprì i due amanti e, anziché prendersi la sua vendetta al momento, "dissimulò lo sdegno" e meditò di liberarsi del rivale in amore e della tirannia dei Trinci in un colpo solo.
Per avere tutti e tre i fratelli Trinci nello stesso luogo e nel medesimo momento, ser Pietro pensò di organizzare una grande battuta di caccia, certo che nessuno di loro vi avrebbe rinunciato. L’8 gennaio 1421 inviò quindi un messaggio al palazzo Trinci, con cui invitava i tre fratelli alla Rocca per il giorno seguente, poiché la mattina successiva, di buon’ora, avrebbero dato la caccia al "più smisurato e gran porco cinghiaro che mai in quelle selve si fosse visto".
Niccolò e Bartolomeo accettarono entusiasticamente, e si unì a loro anche Berardo da Varano, Signore di Camerino, che si trovava in quel momento a Foligno insieme ad altri nobili di Matelica e Fabriano. Corrado declinò l'invito, perché invitato a un ricevimento di nozze in quel di Trevi. Il giorno seguente, i due fratelli Trinci, il da Varano e gli altri nobili, si recarono a Nocera, dove giunsero in tempo per la cena. Per la notte Niccolò e Berardo da Varano alloggiarono nella Rocca, mentre Bartolomeo e gli altri nobili al seguito si sistemarono in una delle locande della città.
A notte fonda, ser Pietro e suo fratello Nanni entrarono nella camera di Niccolò. Immobilizzato Niccolò dalle guardie, ser Pietro "prima tagliò via tutti dui i sonagli col membro virile insieme e poi cavògli crudelmente il core".
Non contento, infierì sul cadavere. Ancora lordo di sangue, fece irruzione nella camera del Duca di Camerino e lo fece imprigionare.
Era ormai l'alba e quelli che alloggiavano in città si stavano preparando per la caccia; ser Pietro mandò a chiamare Bartolomeo a nome del fratello.
Questi, che nulla poteva sospettare, entrò nella Rocca insieme ad alcuni dei suoi compagni; furono immediatamente presi e imprigionati, a eccezione di Bartolomeo che fu condotto nella camera dove giaceva il fratello.
Sul far del giorno, consci che a quel punto i compagni dei Trinci in città avessero già notato la loro assenza, ser Pietro e i suoi si barricarono nella Rocca.
Era il 10 gennaio del 1421.
Il castellano fece convocare tutti i notabili della città di Nocera e, quando questi furono radunati di fronte alla porta della Rocca, dalla cima delle mura, tra i merli, li apostrofò esortandoli a riprendersi la libertà, ché il tempo di affrancarsi dalla tirannia dei Trinci era finalmente giunto. Disse che aveva imprigionato Niccolò e Bartolomeo Trinci, e che di lì a poco li avrebbe giustiziati di sua mano.
Con suo grande disappunto, i convenuti risposero che non si ritenevano poi così tanto malgovernati da giustificare un assassinio; se, anzi, li avesse rimessi subito in libertà, erano sicuri che avrebbe ottenuto il perdono per quella sua scelleratezza, e che essi stessi si sarebbero spesi in suo favore. Tuttavia, se invece li avesse uccisi, avrebbero dovuto informare il fratello Corrado e Braccio da Montone, imparentato sia coi Trinci che coi Varano.
I due giovani gli erano stati sì fedeli, ma la loro lealtà andava innanzitutto ai legittimi Signori; usciti che furono dalla Rocca, si diressero a spron battuto verso Trevi, dove sapevano essere Corrado. Nel frattempo i cittadini di Nocera, riunitisi in consiglio, decisero di inviare un messo a Corrado, per avvisarlo che i suoi fratelli erano stati fatti prigionieri, ignorando che erano invece già stati uccisi.
I primi a raggiungere Corrado furono i due usciti dalla Rocca; appena udita la ferale notizia, Corrado ordinò ai suoi di sellare i cavalli e, mentre si accingeva a partire, arrivò anche il messo della città di Nocera, al quale comandò di tornare indietro e avvisare i Nocerini che il Castellano aveva già ucciso i suoi fratelli: che i cittadini montassero la guardia attorno alla Rocca, e impedissero qualsiasi tentativo di fuga; egli sarebbe andato in cerca di aiuto da Braccio.
Andrea Fortebraccio da Montone, detto "Braccio", a quel tempo era Signore di Bologna e di Perugia, e si trovava a Todi per dirimere alcune questioni tra la popolazione. Era cognato di Berardo da Varano, avendone sposata in seconde nozze la sorella Nicolina nel 1418, e consuocero di Niccolò Trinci, grazie all'unione tra il figlio Oddo e la figliola di questi, Elisabetta.
Radunati i soldati più prossimi, e ordinato agli altri di seguirlo, Braccio partì immediatamente alla volta di Nocera, in compagnia di Corrado. Appena giunto in città, inviò un messaggero per chiedere al Castellano la ragione del suo scellerato gesto. Il Castellano rispose di non essere stato istigato da nessuno, ma che aveva voluto liberare la patria dai tiranni e al contempo vendicarsi dell'affronto subito da Niccolò. Alla richiesta di liberare Berardo e gli altri prigionieri, ser Pietro oppose un deciso rifiuto.
Corrado e Braccio rimasero davanti alla Rocca per tre giorni, in attesa dei soldati di quest'ultimo, quindi diedero l'assalto alla Rocca. I combattimenti durarono più di sei ore, e alla fine prevalsero i bracceschi che entrarono nella fortezza. Il Castellano riparò nella torre, dove già era imprigionata la moglie, con due figli e il fratello Nanni, lasciando indietro il padre, ser Pasquale, e trentanove tra coloro che l'avevano aiutato nella sua "impresa". L'ira di Corrado si riversò su quegli sventurati, traditi dal Castellano: uccise con le proprie mani ser Pasquale e, smembrato il suo corpo, lo diede in pasto ai cani. Agli altri non toccò sorte migliore: alcuni, legati vivi dietro ai cavalli, "furono per sassi, per spine e fossi tirati, lasciando or qua or là le lacerate carni"; altri vennero squartati vivi, altri ancora mutilati con tenaglie arroventate, e alcuni altri interrati fino al mento.
Liberati il Duca di Camerino e gli altri imprigionati, l'assedio si strinse attorno alla torre. Dalla cime del maschio, il Castellano aveva assistito alla morte del padre e allo strazio che ne era seguito; persa ogni speranza, fece condurre a sé la moglie, Orsolina, con le mani legate e implorante pietà. Sordo alle sue preghiere, il Castellano la gettò giù dalla torre, uccidendola sul colpo
Braccio fece appiccare il fuoco, affumicando gli assediati che, infine, cedettero. Ser Pietro, i due figli, e il fratello Nanni, seguirono la sorte toccata alla povera Orsolina e vennero gettati dalla cima della torre. Non contento, Corrado infierì sui corpi, straziandoli ulteriormente e ordinando che rimanessero insepolti, a far da cibo per i corvi.
Ordinò poi di dare degna sepoltura ai fratelli, e anche alla sventurata donna.
Nella versione di Parruccio Zampolini, vedendosi perduto, Pietro uccise la moglie e poi la gettò dalla torre; quindi si lasciò cadere, preferendo morire piuttosto che finire in mano dei suoi nemici. Gli altri che erano con lui non ebbero coraggio di suicidarsi e preferirono affidarsi alla misericordia di Braccio. Vennero tutti messi a morte, chi all’istante e chi dopo essere stato condotto a Foligno. Il corpo di ser Pietro, nonostante fosse morto, venne orribilmente straziato dall'imbestialito Corrado.
Manentesco Manenti di Trevi era il Podestà di Nocera; accusato di essere amico del Castellano venne ucciso, insieme al figlio, da Corrado Trinci, il quale si dedicò poi a perseguitare in ogni modo i Manenti, giurando di uccidere essi e i loro fautori fino al terzo grado. Infatti in Nocera, in Rasiglia, in Foligno, in Trevi, nella Fratta, caddero nelle sue mani molti di questi infelici. Tra gli altri fece uccidere il padre di Manentesco e tutta la sua famiglia, le donne, i fanciulli, i lavoratori, perfino il fornaio di casa Manenti. L'abbazia di Bovara era allora amministrata da Simone Manenti: in odio al nome Manenti, Corrado invase il Monastero, cacciò i Monaci e si impossessò dei beni.
Tra uomini, donne, vecchi, e bambini, furono più di cinquanta i morti a causa della vendetta di Corrado e c’era chi diceva che, nell’area della Contrada (La Contrada della Croce) dove vennero eseguite le uccisioni, non si poteva fare un passo senza mettere il piede nel sangue, nelle budella, nelle cervella e nelle membra di quei morti.
Nel suo libro “Sans fin amour – Il ritratto di Lucrezia Panciatichi” lo storico Matteo Bebi racconta la storia di Lucrezia Pucci Panciatichi, nobildonna fiorentina, nota per il suo ritratto eseguito dal Bronzino (1541), ma poco conosciuta nei suoi aspetti più personali.
Il racconto permette di reinterpretare l’opera e di farla rivivere sotto una nuova dimensione attraverso una narrazione fortemente emotiva che giunge a “meglio conoscere il passato di Lucrezia, adombrato dalla sua stessa immagine” fino ad evolversi “per indagare anche i sentimenti dello stesso capolavoro: i suoi e quelli di coloro i quali ne venivano a contatto durante i secoli.“
Nel famoso ritratto Bronzino rappresenta Lucrezia con un sontuoso vestito rosso, ornato da pizzi e da una cintura con pietre preziose, con le maniche a sbuffo. La nobildonna indossa inoltre due collane: una di queste reca la scritta “amour dure sans fin”, le cui parole si rincorrono in maniera che possono essere lette da una parte all'altra, senza interruzioni, amplificando il significato di continuità del motto. “Dure sans fin amour” e “Sans fin amour dure” sono infatti altrettanto significative.
L’incisione sul prezioso collier d’oro massiccio rimane forse solo un desiderio impresso su un collare: Lucrezia è perduta per sempre dentro la prigione che le hanno costruito intorno, senza la libertà di essere e amare fuori da quel suo ingombrante cognome.
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Agli Uffizi di Firenze si trovano due ritratti eseguiti nel 1541 da Agnolo di Cosimo detto “il Bronzino”: essi raffigurano due coniugi benestanti, Bartolomeo e Lucrezia Panciàtichi. Fra i due, il dipinto più famoso e inquietante è quello che ritrae la nobildonna.
Al collo (elegante e lungo, come in una specie di Modigliani “ante litteram”) la donna porta una collana in oro; sulle quattro barrette d’oro e smalto che intervallano le maglie della catena si legge la scritta “amour dure sans fin” (“l’amore dura senza fine”); ogni barretta, a forma di parallelepipedo, reca su ognuno degli altri tre lati le tre parole mancanti. In pratica, girando ciascuna barretta l’intera frase può essere ricomposta secondo diverse sequenze circolari («dure sans fin amour», «sans fin amour dure»), senza però che la frase modifichi il suo significato. Resta da capire se la frase si riferisca all’imperituro amore coniugale (come il marito avrà sicuramente preferito) o, più devotamente, all’amore eterno di Dio per gli uomini.
Anche attorno alla vita Lucrezia indossa cintura con pietre preziose montate in oro.
La nobildonna è ritratta all’interno di uno spazio chiuso, davanti ad una nicchia appena percepibile sullo sfondo; la parete retrostante è incorniciata da due colonnine debolmente illuminate, che sostengono un arco. Molto probabile è una simbologia cristiana, dato che Lucrezia siede all’interno di una nicchia uguale a quella che contiene il Cristo crocifisso dello stesso Bronzino. (Clicca per continuare a leggere)
Questa dama seria e malinconica ritratta dal Bronzino non smise di emanare nei secoli la sua sottile seduzione; fu rievocata ad esempio dalla scrittrice inglese Vernon Lee (al secolo Violet Paget) nel suo racconto “Amour dure” uscito a Londra nel 1892 in “Hauntings. Fantastic Stories”. La descrizione fu inviata all’amico Henry James, che a sua volta scrisse una lunga descrizione del quadro del Bronzino nel romanzo “Le ali della colomba” (1902): «L’immagine di una giovane donna magnificamente disegnata fino alle mani e magnificamente vestita, dal viso quasi livido, eppure bello di tristezza, e coronato da una massa di capelli tirati indietro e ammassati alti sulla testa che prima di sbiadire col tempo dovevano aver avuto una somiglianza di famiglia con i suoi. La dama in questione, comunque, con la sua leggera squadratura michelangiolesca, i suoi occhi d’altri tempi, le sue labbra tumide, il suo lungo collo, i suoi famosi gioielli, i rossi sbiaditi dei suoi broccati, era un grandissimo personaggio, ma non l’accompagnava la gioia. E lei era morta, morta, morta» (“Her eyes of other days, her full lips, her long neck, her recorded jewels, her brocaded and wasted reds, was a very great personage – only unaccompanied by a joy. And she was dead, dead, dead”).
Lucrezia era nata nel 1507 a Firenze da Gismondo Pucci, socio di una bottega di lanaioli. Fra il 1528 e il 1534 (la data è incerta) aveva sposato Bartolomeo Panciàtichi, uomo ricco e coltissimo; costui era nato in Francia, anch’egli nel 1507, da una relazione extraconiugale di un ricco mercante pistoiese che aveva importanti legami commerciali con Lione ed era proprietario di una florida azienda commerciale.
Gli sposi vissero inizialmente a Lione, ma dal 1539 si stabilirono a Firenze, dove Bartolomeo il 20 gennaio 1541 divenne membro dell’Accademia letteraria degli Umidi (divenuta in seguito “Accademia fiorentina”); in effetti Panciàtichi si occupava più degli studi umanistici che dell’azienda paterna, la cui gestione affidò ad alcuni parenti.
I due ritratti furono commissionati al Bronzino proprio in occasione dell’importante nomina ricevuta da Bartolomeo. Agnolo Bronzino, nato nel 1503 a Monticelli di Firenze, era un ritrattista affermato alla corte di Cosimo I de’ Medici; era apprezzato per la sua impeccabile tecnica e per la sua abilità nei ritratti dei nobili fiorentini.
Diversi critici hanno sottolineato l’ambiguità del ritratto di Lucrezia, una donna bellissima ma che sembra avere in sé il fascino e i colori della luce al tramonto. Lo sguardo serio, freddo, etereo della donna rispecchiava forse un corrispondente gelo interiore, un’infelicità nascosta, un’amarezza per una vita priva di autenticità e di passione.
In proposito, esiste una notizia (di fonte incerta, ma riferita da Massimo Griffo nel “Giornale degli Uffizi” n. 48, agosto 2010, pp. 1-2), che chiarirebbe molte cose: Lucrezia Pucci, prima di sposarsi, avrebbe vissuto un breve impossibile amore con il giovane Cosimo de’ Medici, figlio del condottiero Giovanni dalle Bande Nere e futuro granduca; questi però era destinato a sposare la figlia spagnola del Viceré di Napoli, Eleonora di Toledo (le nozze avvennero nel 1539), per cui avrebbe sacrificato la sua passione per Lucrezia e anzi avrebbe voluto “sistemarla” facendole sposare Bartolomeo Panciàtichi.
Se così fosse, nel ritratto del Bronzino (commissionato forse da Cosimo e non dal marito di Lucrezia) il volto triste e pensoso della donna potrebbe implicitamente confessare quell’antico amore: “amour dure sans fin”.
Un ulteriore gossip è favorito da un altro ritratto del Bronzino, che raffigura la piccola Bianca detta Bia, “figliola naturale del Duca” Cosimo e nata prima del suo matrimonio, che fu allevata insieme alla discendenza legittima di Cosimo ed Eleonora di Toledo; purtroppo però, all’età di circa cinque anni, nel 1542, si ammalò improvvisamente e morì dopo poche settimane; il duca addoloratissimo ne volle conservare la maschera mortuaria in gesso, da cui forse il Bronzino ricavò il suo ritratto.
E se questa bimba fosse nata da quella relazione nascosta di Cosimo con Lucrezia (della quale il ritratto sembra ricordare le sembianze)? Agli altri dolori sofferti da Lucrezia si aggiungerebbe quello di essersi vista strappare la figlioletta nata da quell’amore impossibile: la sua espressione di gelida indifferenza sembra derivare da una sofferenza profonda e incancellabile.
Sappiamo ancora qualcosa riguardo ai due coniugi Panciatichi. Dopo il matrimonio, nel 1545 Bartolomeo Panciàtichi fu nominato console da Cosimo I: lo stesso anno gli nacque un figlio, Carlo. Nel 1547 fu rimandato in Francia come ambasciatore presso Enrico II e Caterina de’ Medici. Qui fu attratto dalle teorie religiose protestanti, tanto che al suo ritorno a Firenze portò con sé alcuni libri proibiti dalla Chiesa romana, come l’“Istituzione della religione cristiana” di Giovanni Calvino.
Nel 1551 un anabattista pentito, tale Pietro Manelfi, presentò all’inquisitore di Bologna una lista di “eretici” luterani, fra i quali c’erano anche i coniugi Panciàtichi. Essi però ebbero la benevola protezione di Cosimo de’ Medici (il che alimenta la diceria sull’antica “liaison” fra costui e Lucrezia): il duca intervenne presso i «commissari sopra l’inquisizione» per difendere i suoi protetti.
Firenze ebbe dunque il suo autodafé, con una processione degli eretici per la città con la torcia in mano e l’abito giallo con la croce rossa, ma Cosimo evitò l’umiliazione della processione ai «nobili di ricchezze» (e quindi soprattutto a Panciàtichi). Il 12 febbraio 1552 tre donne, tra cui Lucrezia, «le quali erano nella medesima pazzia che i mariti», furono esaminate e condotte nella chiesa di S. Simone e, «presente il popolo, si ribenedissero». Un’amnistia e una “riconsacrazione”, insomma, che evitò guai peggiori ai due coniugi invischiati con il luteranesimo.
Cosimo continuò a favorire espressamente Bartolomeo: «La protezione assicurata da Cosimo al ricco mercante che era stata senza riserve, e decisiva, sul versante delle traversie inquisitoriali, fu non meno determinante sul versante degli interessi economici, e su quel terreno, anzi, fu tale da pregiudicare le legittime ragioni dei creditori avvantaggiando in tutto il Panciàtichi. Fin dalle prime battute si stabiliva che c’era sì da dare soddisfazione ai creditori, ma lo si doveva fare “con mancho danno che si può di esso Bartolomeo”, e i suoi beni non potevano essere alienati senza l’assenso dello stesso Cosimo. E così fu» (R. Mazzei, in “Rivista storica italiana”, anno CXXX, 2018, fasc. I, p. 380; l’articolo contiene numerose altre notizie sull’attività commerciale, culturale e religiosa di Panciàtichi).
In seguito Bartolomeo riprese la sua attività politica: nel 1567 fu nominato senatore, fra i mormorii malevoli degli ambienti clericali; l’anno dopo fu inviato come commissario a Pisa e nel 1578 lo fu a Pistoia. Aveva ormai accantonato per prudenza ogni esternazione delle sue simpatie per il calvinismo e gli ugonotti, ma gli rimase il gusto per la lettura della Sacra Scrittura (ad es. nel 1576 dedicò alla duchessa Eleonora alcune canzoni di imitazione petrarchesca nelle quali ricorreva il motivo della miseria umana e della fiducia del perdono divino).
Bartolomeo Panciàtichi morì a Pistoia nel 1582, dodici anni dopo rispetto a Lucrezia, che era deceduta nel 1570. Il figlio dei due, Carlo, non fu un modello di buona condotta: condannato a morte per aver ucciso un cameriere, ottenne la grazia da Cosimo de’ Medici, che gli fece anche sposare la sua ex amante Eleonora degli Albizzi (un tardivo risarcimento, forse, per l’abbandono di sua madre tanti anni prima…).
Carlo Panciàtichi conservò i ritratti dei suoi genitori nel suo palazzo (ove nel 1584 furono ammirati da Raffaello Borghini); lì restarono sino al 1634, anno della morte di Carlo (o fino al 1665 quando il suo ramo familiare si estinse con la morte di suo figlio Camillo), per essere poi trasferiti nel palazzo del ramo fiorentino della famiglia nell’attuale via Cavour e successivamente nelle Gallerie fiorentine, dove si trovano almeno dal 1704.
Bia dei Medici di Bronzino
Cosimo I dei Medici di Bronzino
Bartolomeo Panciatichi di Bronzino