L' Arca Vecchia di Sant' Ubaldo 

Presentazione del Dott. Francesco Mariucci 

2 febbraio 2022

"Come un uomo scivolato nel sonno. L’ Arca Vecchia di Sant’Ubaldo, Capolavoro del Trecento Italiano”

Relazione del Dott. Francesco Mariucci


Mercoledì 2 Febbraio 2022 è intervenuto presso la sala ex Refettorio della Biblioteca Sperelliana di Gubbio il Dott. Francesco Mariucci per presentare e illustrare ai Soci dell’ Università Terza Età Città di Gubbio l’arca che ha custodito il corpo del Patrono Sant’ Ubaldo  per circa quattrocento anni, dal 1330 al 1725, con una relazione dal titolo "Come un uomo scivolato nel sonno. L'arca Vecchia di Sant'Ubaldo, capolavoro del Trecento Italiano"

Conservata, dopo numerosi spostamenti, nella chiesa di  Santa Maria Nuova e restaurata nel 1982, venne riportata nella Basilica di Sant’Ubaldo nel 1997. Oggi è conservata presso la Raccolta delle Memorie Ubaldiane, a cui si accede dal chiostro.

A lungo incompreso nella sua eccezionale valenza artistica e devozionale, questo prezioso manufatto del Trecento Italiano sembrava destinato a collocarsi tra i tanti oggetti di scarso valore, fino alla sua recente riscoperta e valorizzazione. A ciò ha contribuito,  con la sua approfondita  ricerca storico - artistica, il Dott. Francesco Mariucci che ha fatto confluire i risultati nel libro L’arca vecchia di Sant’Ubaldo. Memoria e rappresentazione di un corpo santo”, Edizioni Fotolibri Gubbio, Gubbio 2014.

Il volume, accompagnato da un saggio di Andrea De Marchi storico dell’Arte Medievale, è il punto di riferimento per la conoscenza di questo particolare manufatto e a cura dello stesso autore è la scheda relativa all’arca vecchia presente nel catalogo della mostra Gubbio al tempo d Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi tenutasi in città nel 2018.

In un’ epoca in cui  la città prosperava esprimendo tutto il suo fervore di libero Comune, i cittadini pensarono di realizzare un’ urna molto particolare, che avesse lo scopo di conservare il corpo incorrotto del loro Patrono e al tempo stesso consentisse di mostrarlo per assecondare la venerazione che da sempre essi manifestavano con profondo entusiasmo.  

Questa preziosa cassa di legno, con decorazioni su tutti i lati, permetteva, in determinate occasioni, di rendere visibili le spoglie del Santo con un suggestivo cerimoniale durante il quale, al luccichio delle lampade, veniva sollevato lo sportellone apribile frontalmente e, probabilmente, anche un velario di tessuto.

L’Arca testimonia i sentimenti di amore, devozione, ammirazione, fiducia, fede, desiderio di protezione e di solidarietà che il popolo eugubino ha espresso nel fluire del tempo, manifestazioni imperiture di quell’affetto che li lega al Santo Patrono con devozione filiale.

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Di seguito possiamo leggere una scheda del Dott. Francesco Mariucci sugli elementi salienti del prezioso manufatto.

Maestranze eugubine e Maestro espressionista di Santa Chiara

Arca vecchia di sant’Ubaldo

Legno, metallo, vetro, dipinti su tavola, 142 × 251 × 97 cm

Gubbio, Raccolta delle Memorie Ubaldiane


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Negli anni trenta del Trecento, in contemporanea con gli eventi che rappresentarono la massima espressione dell’autonomia della città, cioè il grandioso progetto di costruzione dei palazzi pubblici e della pensile platea magna, per contenere il corpo integro e incorrotto di sant’Ubaldo, morto, giova ricordarlo nel 1160, fu allestito un manufatto davvero straordinario, un’arca capace di contenere, proteggere e presentare la reliquia del defensor civitatis, un sepolcro destinato a fissare, nella coscienza civica degli eugubini, la massima ragione di gloria della città. 


L’arca vecchia di Sant’Ubaldo è una monumentale cassa lignea a capanna, visibile a trecentosessanta gradi, pensata a imitazione delle casse-reliquiario orafe, ma anche di sarcofagi marmorei, progettata per assolvere alla funzione di reliquiario-ostensorio, di arredo liturgico e di pala d’altare. Nonostante un pesante riallestimento rinascimentale, il manufatto custodisce ancora l’ossatura della struttura originale e le pitture dei due lati brevi interni, con un Cristo benedicente e un Santo diacono (San Mariano o San Giacomo), santi titolari della cattedrale, entro quadrilobi ornati sull’oro e sull’argento. 


L’arca era probabilmente collocata al vertice di quattro colonne poste dietro all’altare maggiore della chiesa dedicata a sant’Ubaldo, appositamente costruita in cima al Monte di Gubbio entro la prima metà del Duecento.


Il prospetto frontale, componente il cosiddetto sportellone apribile verso l’alto, era rivestito in origine da lacunari decorati da rosette in rilievo, mentre nelle cornici perimetrali erano incastonati decori a tarsìa, a imitazione di ornati cosmateschi, realizzati con inserti di legno chiaro su matrice di noce. 


Fra le tipologie note, le quali presentano quasi sempre la fronte lunga della cassa dipinta con storie del santo, l’arca vecchia si segnala per la sua eccezionalità, che ebbe riflessi nel contesto umbro, per cui era istoriato piuttosto l’interno, con pitture destinate a proteggere il corpo santo prima che a essere fruite dai devoti.


Purtroppo sono andate interamente perdute le figurazioni dei cinque quadrilobi più piccoli, che si dovevano traguardare sul lato lungo della cassa, dentro la cella funeraria, dietro al corpo incorrotto di sant’Ubaldo che aveva la testa sulla destra del cataletto, sotto l’immagine benedicente del Cristo, la cui mano presenta un tentativo di forte scorcio, quasi volesse emergere dal fondo oro per posarsi sopra il corpo. 


Un’analoga soluzione si trova nel Cristo benedicente della croce di Giotto di Ognissanti e nello stesso soggetto dipinto, sempre da Giotto, nel sottarco di accesso al chiostro della Basilica Inferiore di Assisi, dettaglio iconografico che contribuisce a creare l’illusione di uno spazio tangibile. 


I due tabelloni alle estremità, miracolosamente sopravvissuti, non erano sfuggiti a Pietro Toesca (1951), il quale ne aveva già individuato la paternità da parte dello stesso pittore attivo in Santa Chiara ad Assisi, identificato da Enrica Neri Lusanna in Palmerino di Guido, padre del più noto Guido Palmerucci


La segretezza e difficile visibilità dei dipinti era intenzionale, per accrescere l’aura di sacralità di questo vano scrutato attraverso lo sportellone, di sotto in su e di lato tra la luce accidentale delle lampade a olio e delle candele. Inoltre, è probabile che la ferrata, oltre lo sportellone, almeno in epoca medievale, non fosse l’ultimo diaframma posto a protezione del corpo santo. 


All’interno dell’arca si trovano ancora due campanelle in ferro, al di sopra e lateralmente all’apertura, forse utilizzate come alloggiamento di una guida per l’installazione di un velario scorrevole. 


Appare evidente che l’arca, oltre a espletare la funzione di monumento commemorativo, di memoria, concorresse alla celebrazione del vescovo attraverso la rappresentazione del corpo incorrotto. La tanto attesa revelatio della reliquia avveniva per mezzo di una vera e propria messa in scena, azione allestita, prima di tutto, con i gesti rituali di rimozione dei diaframmi posti a protezione dei sacri resti, il sollevamento dello sportellone e l’apertura della probabile cortina di tessuto. 


L’ostensione della reliquia era evento raro e seguiva un calendario preciso, pertanto le tavole sono state per lo più chiuse e protette all’interno della cella funeraria. Questa custodia ne ha ostacolato un apprezzamento più adeguato, ma ha consentito, per contro, un vero e proprio miracolo di conservazione. 


La superficie pittorica, infatti, si conserva perfettamente e, nonostante qualche vistosa fessurazione data dallo scollegamento delle assi che compongono i pannelli, «le carni sono luminose come l’avorio, i profili scaldati da una linea rossa come nel Giotto delle Vele di Assisi, le ciglia sfilate una ad una come in Simone Martini, le dorature a missione scintillanti sulle vesti di Cristo, le fitte argentature stese sulla dalmatica del santo diacono, le fastose incorniciature combinate con fasce incise a mano libera sull’oro, compassi intersecati e cantonali colmati di ramages a sgraffito su oro e argento, in un tripudio di colori vivi, di rosso lacca e di verde, ritagliati minutamente sulle diverse lamine» (Andrea De Marchi). 


La qualità delle figure, fatte d’incarnati morbidi, fusi, smaltati, impastati di luce, non solo trae origine dall’opera di Giotto, ma si nutre, progressivamente, delle tante esperienze giottesche svolte nella Basilica Inferiore e dell’opera di Simone Martini, da cui recepisce atteggiamenti, eleganze e l’attenzione per numerosi dettagli, pure minuti. In questo senso anche la stagione che precede il gotico assisiate lascia segni importanti sulla sua pittura, come le incisioni a mano libera della superficie dorata dei pannelli, che richiamano alla mente le tipologie utilizzate dal Maestro di San Francesco, oppure l’utilizzo di vetri colorati applicati alle carpenterie e negli impasti degli intonaci, come si vede ad esempio nella chiave di volta dell’abside destra di San Francesco di Gubbio. 


Nella cornice contenente i quadrilobi, perduti, erano infatti incastonati, come pietre preziose, vetrini decorati messi in opera al fine di ottenere effetti simili a quelli degli smalti che guarnivano le opere di oreficeria. 


Nella perenne penombra della cella funeraria, allora, è facile immaginare la qualità e la proprietà delle dorature dei dipinti e della lucentezza dei vetrini: appena sfiorati dalla luce accidentale delle finestre, dalle fiamme delle candele e delle lampade a olio, producevano effetti inaspettati, riflessi e riverberi che suggestionavano lo spettatore. 


Tale scenario è confermato indirettamente da una fonte manoscritta del 1344, quando un pellegrino inglese diretto in Terrasanta fa tappa a Gubbio e trascrive nel suo diario la sensazione di trovarsi non di fronte a un cadavere, ma a un uomo vivo, scivolato nel sonno: sicut homo qui se sopori dedisset


La suggestiva visione evocata dal visitatore straniero è l’immagine più eloquente ed efficace trasmessa dalla reliquia ed è la risposta al fermento spirituale del pellegrino, coinvolto emotivamente davanti all’arca del Santo. Il reliquiario ha pertanto svolto perfettamente la sua funzione strategica, quella cioè di orientare il culto, di stabilire i tempi, i modi e la risposta alla devozione.

 

Francesco Mariucci

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